Una coppia che lascia l’Unione sovietica e approda in Germania in cerca di un futuro per i propri figli. Un marito che picchia la moglie. Anton e Ali/Alissa, i gemelli che passano da un paese all’altro e crescono mescolando russo e yiddish al tedesco, scoprendo vicendevolmente i corpi, interrogando i generi. Poi uno se ne va e la scomparsa fa riaffiorare la Trilogia della città di K. di Kristofiana memoria.
Il romanzo d’esordio della drammaturga Marianna Sacha Salzmann lascia senza fiato e ha il pregio di sollevare molte domande senza pretendere rispondere a nessuna. Cosa sono i confini? Quanto ci possono separare da noi stessi? Cos’è l’identità? Quanto ci definisce e quanto ci opprime?
Tante voci narranti si alternano per raccontarci una storia che non si esime dall’essere molteplice come i suoi protagonisti, refrattari alle fotografie, costantemente in movimento, per non arrendersi agli altri. Quelli che gridano «sporchi ebrei» o «froci». Quelli che ci rendono estranei. Quelli che nel dubbio tirano pugni a moglie e figli. Andare a ritroso nelle tentacolari storie familiari, scorgere nei genitori altro che i monoliti di sofferenza che sono diventati. Per arrendersi agli altri, quelli che ci aiutano a cogliere qualcosa di noi stessi, quelli che aprono possibili.
Per cercare una via di uscita, ma non è detto che ci sia, a volte basta prendere in prestito uno zio turco e farsi cullare da un divano abitato da cimici, nel cuore di Istanbul.