Natale 2013: le novità di Tuba

Alice Munro “Danza delle ombre felici” – Vincitrice del premio nobel per la letterature del 2013.
munro«Mi resi conto che alcune cose dovevano essere scritte da me». Sono le parole di Alice Munro a proposito di Danza delle ombre felici, la sua prima raccolta di racconti, pubblicata nel 1968. Vi si trovano i personaggi, i luoghi, le situazioni e le case, i sentimenti e le cose che, decennio dopo decennio, hanno saputo ricostruire un mondo la cui mappa imperfetta contiene il movimento del tempo e la cruda bellezza di ogni vita. Oggi Alice Munro ha percorso la miriade di sentieri indicati dalle sue storie. Questo libro segna l’inizio del cammino. Tanto basterebbe per farne una tappa cruciale nell’opera di una grande autrice che parla sottovoce e che sottovoce ci ha svelato, senza mai sciuparli, molti dei suoi segreti e quasi tutti i nostri.

Elena Ferrante “Storie di chi fugge..” – Terzo volume della trilogia L’amica geniale.
Elena FerranteElena e Lila, le due amiche la cui storia i lettori hanno imparato a conoscere attraverso “L’amica geniale” e “Storia del nuovo cognome”, sono diventate donne. Lo sono diventate molto presto: Lila si è sposata a sedici anni, ha un figlio piccolo, ha lasciato il marito e l’agiatezza, lavora come operaia in condizioni durissime; Elena è andata via dal rione, ha studiato alla Normale di Pisa e ha pubblicato un romanzo di successo che le ha aperto le porte di un mondo benestante e colto. Ambedue hanno provato a forzare le barriere che le volevano chiuse in un destino di miseria, ignoranza e sottomissione. Ora navigano, con i ritmi travolgenti a cui Elena Ferrante ci ha abituati, nel grande mare aperto degli anni Settanta, uno scenario di speranze e incertezze, di tensioni e sfide fino ad allora impensabili, sempre unite da un legame fortissimo, ambivalente, a volte sotterraneo a volte riemergente in esplosioni violente o in incontri che aprono prospettive inattese.

Carol Oates “Storia di una vedova”.

Storia di una vedova

È una mattina di febbraio del 2008, e Joyce Carol Oates porta il marito sofferente al pronto soccorso del Princeton Medical Center, dove gli viene diagnosticata una polmonite. Confidando in una dimissione da lì a un paio di giorni, la coppia non si aspetta quello che sta per arrivare: a causa di un’infezione contratta in ospedale, Raymond Smith muore inaspettatamente lasciando sola sua moglie. Storia di una vedova esplora la lotta di una donna che si trova ad affrontare la vita senza il compagno che l’ha sostenuta, amata, persino formata, per cinquant’anni. Joyce Carol Oates racconta con lucidità, rigore, nitidezza, persino ironia, il tempo del dolore, del vuoto, del disorientamento, del caos di incombenze generate dal decesso; ma racconta anche il tempo dell’amicizia vera che conforta, del coraggio e della forza d’animo.

Joyce Lussu “Il turco in Italia”

Il turco in Italia – Joyce Lussu

Quando nel 1958 Joyce Lussu e Nazim Hikmet si incontrano per la prima volta a un congresso per la pace a Stoccolma, lei non conosce una parola di turco, lui si esprime in un francese sgrammaticato e fantasioso. Eppure Joyce, attraverso la conoscenza diretta del mondo ideologico, etico, estetico e psicologico di Hikmet, delle esperienze che l’hanno formato, degli autori che lo interessavano, della sua famiglia, dei suoi amici e dei suoi nemici, è stata la prima traduttrice italiana del più importante poeta turco del Novecento.
Attraverso quest’agile e brillante biografia di Nazim Hikmet, Joyce Lussu racconta in prima persona il loro rapporto di amicizia, facendo emergere con abili pennellate sia l’Hikmet uomo che l’Hikmet poeta, senza tralasciare aneddoti curiosi come la rocambolesca fuga da Istanbul.

Taiye Selasi “La bellezza delle cose fragili”

Adesso fissa le cose che brillano, catturato da tanta bellezza, e sa quello che già sapeva tanti inverni fa: quando ci si trova davanti a qualcosa di fragile e perfetto in un mondo che è brutto, terribile e crudele, conviene non dare nomi. Meglio fingere che la cosa non esista.
E una seconda fitta ora, perché la perfezione esiste, si ostina a esistere nelle cose piú vulnerabili, incurante del fatto che Kweku si rifiuti – un rifiuto ammirevole per la logica che lo motiva – di accoglierla nel suo cuore e nella sua mente. Perché la logica inclemente, la disgrazia di chi è dotato di lucidità, gira e rigira, lo spingono sempre a sbattere la testa contro lo stesso muro: (a) la futilità della visione, a fronte della fatalità della bellezza, soprattutto della bellezza insita nelle cose fragili e in un posto come quello, dove una madre ancora sporca di sangue è costretta a seppellire il figlio appena nato, sciacquarsi con un tubo di gomma per poi tornare a casa a schiacciare patate dolci; (b) la persistenza della bellezza, proprio nelle cose piú fragili: una goccia di rugiada all’alba, una cosa destinata a finire nel giro di qualche istante, in un giardino, in Ghana, il Ghana, terra rigogliosa, morbida, verde, dove le cose fragili muoiono.

Joan Didion ” Diglielo da parte mia”

Boca Grande è la capitale di un piccolo stato del Sud America, uno di quei paesi da un colpo di stato all’anno dove non cambia mai niente. Un giorno a Boca Grande arriva Charlotte Douglas, una donna nordamericana smarrita e magnetica. Nessuno sa chi sia, cosa cerchi o cosa ci faccia a Boca Grande. A raccontarci la sua storia è Grace Strasser-Mendana, donna fra le più in vista della città, appartenente “a una delle cinque o sei famiglie solvibili del paese”: «Lasciò un uomo, ne lasciò un secondo, tornò a viaggiare col primo, lo lasciò morire solo come un cane, perse una figlia a beneficio della “storia”, e un’altra a seguito di certe “complicazioni”. Poi arrivò a Boca Grande». In Diglielo da parte mia Joan Didion racconta la vita di Charlotte: una donna bella e di classe, ricca e affascinante, che in cuore non ha altro che confusione e vuoto: la vita le ha fatto delle promesse (una famiglia, l’amore, la serenità) ma lei le ha fraintese, ha perso delle persone care, si è trovata sola, e ora è arrivata a Boca Grande per dimenticare, accompagnata solo dal suo fascino.

Yasmina Reza “Felici i felici”

“Felici gli amati e gli amanti e coloro che possono fare a meno dell’amore. Felici i felici”: le due ultime «beatitudini» di Borges, che Yasmina Reza inscrive sulla soglia di questo romanzo, ci indicano la via per penetrare nel fitto intreccio delle vite che lo popolano. Perché la felicità – nell’a­more o nell’assenza di a­more, all’inter­no di una coppia o al di fuori di ogni legame – è un talento: e di tutti i personaggi che a turno consegnano al lettore confessioni a volte patetiche, a volte grottesche, a volte atrocemente comiche, si direbbe che quasi nessuno lo possegga. In un sottile gioco di echi, di risonanze, di contrappunti – tra amori inaciditi e rancori mai sopiti, illusioni spezzate e fughe nel delirio –, le voci che si avvicendano, quasi incalzandosi, tessono un ordito i cui fili (tenui in alcuni casi, in altri pesanti come catene) collegano molteplici destini, tutti segnati dall’impervia difficol­tà del­l’incontro con l’altro. Con una scrittura di chirurgica precisione, capace di muoversi tra i registri più vari, in un susseguirsi di scene in cui sempre lampeggia il genio della donna di teatro, Yasmina Reza è abilissima nel far affiorare, appena sotto la superficie smaltata delle apparenze, solitudine e violenza, disperazione e risentimento.

Alexandra Sheiman “Diario perduto di Frida Kahlo”

Un piccolo altare con mazzi di fiori gialli di tagete, pani zuccherati, fotografie piene di nostalgia, incensi dalle fragranze mistiche, candele e pietanze prelibate. Nell’esotica Casa Azul di calle de Londres, a Coyoacàn, tutto è pronto per ricevere il misterioso messaggero che, ogni anno il due di novembre, puntuale viene a far visita a Frida Kahlo. Ma la pittrice ha deciso: questa sarà l’ultima volta, l’ultimo incontro con colui che, in cambio di quelle elaborate pietanze, da troppo tempo rimanda l’appuntamento di Frida con la Morte. Perché l’artista prodigiosa, donna fragile e indomita, rivoluzionaria, amica e amante di personaggi straordinari come André Breton, Tina Modotti, Lev Trotsky, era destinata a morire a diciotto anni, nel drammatico incidente che invece, in virtù di un patto fin qui scrupolosamente onorato, la restituì alla vita e alla sua arte. Solo per inchiodarla – con la schiena a pezzi e le ossa rotte – al letto in cui trascorrerà anni interi a dipingere autoritratti e a osservare la propria immagine riflessa nello specchio sopra il baldacchino. Frida, la donna minuta, appassionata e sofferente che amava la vita e si augurava di uscirne “gioiosa e di non tornare mai più”, rivive in questo romanzo colorato, sensuale e sorprendente come i suoi quadri.

Chiara Gamberale “Per dieci minuti”

I dieci minuti che ogni giorno dedichi a te. Dieci minuti, tutti i giorni, per un mese. Il tempo necessario per fare qualcosa di nuovo, qualcosa che non hai mai fatto prima. Dieci minuti per lasciarsi alle spalle tutto, per cercare di non accorgersi che tutto ciò che avevi non è più tuo, che non sei più ciò che eri, che la vita come la conoscevi non sarà più la stessa. Dieci minuti al giorno per riuscire a guardare avanti e non voltarsi indietro, evitando di contemplare le macerie di ciò che è stato. Per dieci minuti è un romanzo in cui Chiara Gamberale racconta il superamento di un dolore.

 

Jenny Erpenbeck “E non è subito sera”

La storia inizia in Galizia, ai primi del Novecento. Una giovane coppia ha appena perso la propria bambina di poche settimane. Cosa le sarebbe successo se la sua vita non si fosse interrotta? Quale destino le sarebbe toccato? Dopo un brevissimo intermezzo si ottiene la risposta e la bambina è ora una diciottenne innamorata nella Vienna di inizio secolo. E se lei non fosse morta tragicamente quante altre esperienze avrebbe vissuto? Sarebbe per esempio potuta scappare a Mosca in fuga dalle persecuzioni naziste e, se lì non fosse stata eliminata nelle grandi purghe, sarebbe potuta diventare un’affermata scrittrice glorificata dalla Ddr. E forse se non fosse caduta dalle scale, avrebbe potuto assistere quasi novantenne alla caduta del Muro e spegnersi, questa volta irrevocabilmente, in una casa di riposo berlinese.

Suad Amiry “Golda non ha dormito qui”

Di cosa è fatta la bellezza di una casa, se non della vita di chi la abita? Ma quando accade che un intero popolo si trovi all’improvviso espropriato delle sue dimore, la domanda che passa, amara, di bocca in bocca è soltanto una: che fine fa quella bellezza, e che fine fa l’anima di chi in quelle case, in quei palazzi, in quei giardini, ci ha vissuto, ci ha pianto e ci ha gioito, per una vita intera? Questa storia ha inizio nel 1948, quando gli inglesi, partendo da Israele, lasciarono due popoli in lotta: l’uno con tutto, l’altro con niente. Suad Amiry, palestinese, racconta quella perdita inestimabile, quella dei muri con dentro le anime, la memoria, i gesti, gli affetti. Muri a cui oggi, ai vecchi proprietari di sempre, è addirittura proibito avvicinarsi, è preclusa la vista, la memoria delle sensazioni. Come all’architetto Andoni, che vorrebbe tornare nell’abitazione che ha progettato e costruito, il “suo gioiello”, e scopre in tribunale di non poterlo fare in quanto “proprietario assente”; o come a Huda, che preferisce testardamente la cella alla condanna di non poter rientrare nella casa dei genitori. Insieme agli effetti di un conflitto storico che dura da allora, Suad Amiry, con profonda grazia e humour dissacrante, si confronta con un tema universale e potente com’è quello della casa, che finisce per coincidere con la nostra stessa identità, con la nostra stessa, comune, storia.

Julie Maroh “Il Blu è un colore caldo”

Il primo sguardo tra due persone destinate a innamorarsi può essere un evento sconvolgente: una scossa destinata a far tremare le fondamenta di una vita banale, un’esplosione di colore che ravviva un mondo altrimenti grigio. È quello che accade a Clémentine 15 anni, in un pomeriggio qualsiasi, quando una macchia di colore si fa strada verso di lei tra la folla: una testa dai capelli tinti di blu, un paio d’occhi dello stesso colore che per i mesi a venire invaderanno, notte dopo notte, ogni suo sogno. Eppure, la storia di Clementine non è solo una storia d’amore. È una storia di vergogna, di negazione, di rabbia, di insicurezza: perché il nome della sua ossessione è Emma, e in un mondo intriso di pregiudizi vivere la propria omosessualità alla luce del sole può provocare fratture emotive insanabili, e deviare per sempre il corso di un’esistenza.